Nel giugno del ’28 Leopardi era passato da Pisa a Firenze, da dove fu poi costretto a ritornare a Recanati non permettendogli piú la cattiva salute di attendere a quei lavori editoriali (come la Crestomazia per lo Stella di Milano) che gli davano i mezzi per vivere lontano da Recanati. Il ritorno è stato talvolta prospettato anche ottimisticamente come ritorno al «nido dei sogni», secondo un’espressione usata dal Momigliano. In realtà quel sognare e la stessa capacità di avvio alla poesia del ricordo nascono su una base fortemente dolorosa ed elegiaca, e su una coscienza da parte del Leopardi di un presente estremamente oscuro, disperato. Scrivendone al Colletta (dal quale, dopo resistenze, si era deciso ad accettare l’aiuto finanziario che gli offrivano gli amici di Toscana per uscire da Recanati), Leopardi si esprimeva infatti cosí: «Per ora vi dirò solo che la vostra lettera, dopo sedici mesi di notte orribile, dopo un vivere dal quale Iddio scampi i miei maggiori nemici, è stata a me come un raggio di luce, piú benedetto che non è il primo barlume del crepuscolo nelle regioni polari»[1]. Sono parole che dicono tutto su questo periodo. I «sedici mesi di notte orribile», dal novembre del ’28 all’aprile del ’30, passati in Recanati furono sentiti dal Leopardi come ritorno a una prigione tra gente «selvaggia», e come avvio alla morte. È un motivo dolente e disperato che ritorna anche nelle altre lettere di quei mesi e che si intreccia con una forte emotività (scrivendo al Vieusseux dirà che il ricevere una sua lettera gli ha fatto spargere lacrime)[2], che stimolerà nel poeta un ulteriore bisogno di colloquio, di comunicazione, anche se con persone scomparse, come nel caso della figura di Nerina nelle Ricordanze.
D’altra parte, se è sostanzialmente esatto sottolineare che Leopardi nel periodo recanatese ha concentrato tutto se stesso nella creazione di poche altissime poesie dove ha perseguito la fondamentale poetica del ricordo, della doppia vista, della lirica soggettiva, tuttavia è pur vero che egli anche allora non mancò di una piú vasta disposizione di interessi, anche non poetici, come provano i numerosi disegni stesi appunto tra il ’28 e il ’29[3]. Fra essi si trovano progetti di opere di carattere filosofico: «Della natura degli uomini e delle cose. Conterrebbe la mia metafisica, o filosofia trascendente, ma intelligibile a tutti. Dovrebbe essere l’opera della mia vita»; e in questa filosofia comprensibile a tutti par quasi di cogliere un anticipo del messaggio che Leopardi, nella Ginestra, «nulla al ver detraendo», indirizzerà agli uomini; un altro progetto porta per titolo Manuale di filosofia pratica. Un gran numero di disegni sono relativi a opere poetiche, come Alla Gioventú, Angelica, Poesia in morte di una giovane, Poesia sopra la mia morte, Addio al mondo, oppure una Poesia sopra Napoleone, ed Eugenio, romanzo (Werther), frammenti che ci riporta, cosí come il romanzo autobiografico Storia di un’anima progettato nel ’25, a un arco di interessi narrativi autobiografici, mai realizzati dal Leopardi, che si risolveranno nella complessa poesia Le ricordanze. E ancora: Odi filosofiche (Collins ec.). Sopra l’incivilimento, il piacere, l’amore: alla natura, alla felicità ec.; Scherzi anacreontici, catulliani ec. filosofici, satirici ec. al modo del De Rossi ec.; Sermoni, alla Gozzi.
Ma la direzione poi scelta, tra quelle assai numerose che Leopardi veniva indicando in questi disegni, riprende la prospettiva dominante di questo periodo, confortata, dopo il ritorno a Recanati, da un gran numero di pensieri, già ricordati, sul valore del ricordo e della lirica soggettiva. Al motivo del ricordo si riallaccia infatti un abbozzo di poesia intitolato Angelica, di cui ci restano questi pochi versi che consolidano in qualche modo l’argomento di ugual titolo segnato dal Leopardi tra i disegni letterari del ’28-29:
Angelica, tornata al patrio lito
dopo i casi e gli errori onde cotanto
esercitata in ogni strania terra
e in ogni mar la sua beltà l’avea,
otto lustri già corsi, e bella ancora,
là, ne le stanze ov’abitò fanciulla,
sedea soletta, e seco
favellando veniva il suo pensiero.[4]
È un primo tentativo di rappresentare la situazione del ritorno a Recanati trasponendola in un personaggio. Le «stanze ov’abitò fanciulla» (un suggestivo avvio a un grande verso delle Ricordanze: «di questo albergo ove abitai fanciullo», v. 5) destano in Angelica ricordi e paragoni con il presente; nell’abbozzo viene anticipata l’impostazione delle Ricordanze, il ripensare i ricordi che ci suggeriscono i luoghi della fanciullezza. Ma l’abbandono in cui fu lasciato questo abbozzo sugli ultimi tre versi, senza dubbio i piú belli, indica che molto probabilmente Leopardi dovette avvertire l’impossibilità di esprimere tutta la sua nuova situazione se non attraverso un impianto strettamente personale, senza mediazione di personaggio.
Un tentativo in tal senso è appunto Il passero solitario[5], dove è seguita decisamente la direzione personale, ma dove pure Leopardi atteggia la propria storia da un lato senza alcuna cesura (come invece era avvenuto in A Silvia e come poi riavremo nelle Ricordanze) tra l’epoca delle speranze e quella della loro caduta, e dall’altro rivede il suo costume di solitudine come consuetudine e quasi come vizio: quella absence, quel non potere né sapere, né volere partecipare alla vita di cui egli ha pur parlato in alcuni pensieri dello Zibaldone di anni precedenti.
La prospettiva in cui è costruito Il passero solitario è quindi piú parziale e in sostanza meno vera di quella tanto piú complessa e articolata su cui sorgerà la poesia delle Ricordanze, dove Leopardi spiega la sua impossibilità di vita con cause profonde: perché cosí è la sorte di tutti gli uomini e perché cosí hanno voluto gli altri, il «natio borgo selvaggio». La presa di coscienza della sua situazione avrà cioè una forza, una centralità che mancano nel Passero solitario che si può indicare perciò come una poesia capace di una sua particolare bellezza, ma nata su una base piú limitata e non priva tra l’altro di una certa ingegnosità.
Sono osservazioni che rimandano anche alla complessa e assai controversa cronologia di questo canto di cui non abbiamo l’autografo né la data di composizione. Il Leopardi lo pubblicò solo nell’ultima edizione dei Canti, a Napoli nel 1835, collocandolo all’undicesimo posto, all’inizio delle poesie del ’19-21, subito prima dell’Infinito. Collocazione che ha fatto inizialmente supporre che questa poesia (anche se mai pubblicata fino al ’35) risalisse intorno al ’19, anche perché si osservava che in uno degli abbozzi di idilli di quel periodo si trova l’indicazione «Passero solitario». Ma il contesto non offre la possibilità di sapere se si trattava di una poesia autonoma o invece di un argomento da far poi rientrare in un componimento piú ampio[6]. L’unico elemento certo che se ne può trarre è che l’immagine del passero solitario fu presente in Leopardi fin dagli anni piú lontani. In realtà il Passero solitario, come ha ben dimostrato Angelo Monteverdi[7], per le sue forme linguistiche e soprattutto metriche non può essere stato composto che dopo A Silvia, lirica nella quale Leopardi per la prima volta sperimenta la strofa libera di endecasillabi e settenari, e non può perciò che appartenere a una zona successiva al 1828. Fissato questo riferimento fondamentale si è poi cercato di localizzare in maniera piú precisa la cronologia del canto. Da un lato Angelo Monteverdi, rivelando l’assenza di questa poesia nell’edizione 1831 dei Canti e viceversa la presenza in essa delle altre poesie pisano-recanatesi, ha proposto l’ipotesi di una composizione fiorentina, nel 1831, successiva cioè al periodo recanatese. Un’opinione analoga a questa ha espresso anche Umberto Bosco che ha ipotizzato un’elaborazione iniziata dopo il ritorno a Firenze e portata avanti fino al 1835 quando questo canto apparve nell’edizione Starita[8]. Un’ipotesi diversa ha invece avanzato Giovanni Getto, e con lui la studiosa francese Paulette Reffienna, e cioè una collocazione nel 1829[9]. Questa mi pare la proposta piú accettabile anche perché uno dei pensieri dello Zibaldone, datato 2 dicembre ’28, mostra uno stretto legame con la tematica del Passero solitario:
Memorie della mia vita. – Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventú, in casa, senza vedere alcuno: che gioventú! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole. [4421-4422][10]
Nel canto c’è inoltre un’allusione precisa alla festa di San Vito, patrono di Recanati, che cadeva il 15 giugno, che spinge a collocare l’ideazione del Passero assai vicino a questa festa o di poco posteriore a essa, e cioè nel giugno-luglio del 1829; anche se, accettando in questo caso un’indicazione del Bosco, la mancata pubblicazione nel ’31 induce a supporre una sua ulteriore elaborazione, testimoniata tra l’altro dalle consonanze che si notano tra certe espressioni con cui Leopardi indica il tramonto alla fine di questa poesia («si dilegua», «vien meno», vv. 43 e 44) e Il tramonto della luna composto subito dopo l’edizione Starita.
Questa elaborazione dunque laboriosa, molto verosimilmente lunga e ripresa a distanza di tempo, sembra convalidare la genesi non facile della poesia. Che, per i motivi già esposti, da un lato imposta in modo parziale e unilaterale la situazione leopardiana a Recanati e dall’altro lato pur pertiene senza dubbio alla zona pisano-recanatese, sia per l’uso del criterio della doppia vista (il passero che suggerisce la situazione del poeta) sia in particolare per la dolce malinconia che vi è trasfusa.
A una conclusione analoga conduce del resto anche l’esame delle fonti, indicate in un gran numero di studi[11], che Leopardi tenne presenti nel comporre questa poesia e che vanno da motivi biblici («vigilavi et factus sum sicut passer solitarius in tecto», Salmo CI, vers. 8), a situazioni della poesia petrarchesca («Passer mai solitario in alcun tetto / non fu quant’io», CCXXVI, vv. 1-2, dove si accenna sia alla somiglianza tra il poeta e il passero sia alla loro differenza), a un luogo del Morgante («La passer penserosa e solitaria / che sol con seco starsi si diletta», C. XIV, ott. 60, vv. 475-476). E ancora (a parte zone e autori non esplorati dal Leopardi com’è il caso di Giordano Bruno), certi passi dell’Arcadia e della farsa La giovane e la vecchia del Sannazaro[12] in cui compare quel motivo del pentimento che Leopardi prova di fronte alla gioventú non vissuta, uno strambotto di Panfilo Sasso («Come fa il passer solitario, i’ volo / piangendo la mia cruda e trista sorte»), un capitolo del Cellini («Cantava un passer solitario forte / sopra la rocca»), un sonetto di Giovanni Botero e ancora altri riscontri, addirittura in zona settecentesca.
Da questa lunga serie di indicazioni si ricava infatti anzitutto che il tema del confronto tra poeta e passero è una specie di luogo comune e che inoltre il forte uso di reminiscenze letterarie rivela una certa faticosità e una certa ingegnosità nella genesi e nel carattere di questa poesia. Il passero solitario nasce, come dicevamo, su una base piú ristretta e meno sicura e centrale di quella su cui Leopardi poi verrà svolgendo la propria storia nelle Ricordanze. Quel diagramma complesso su cui era impostato il trapasso della poesia di A Silvia e che tornerà nelle Ricordanze, tra presente e passato e tra passato e presente, è in questo canto risolto in una dimensione piú particolare di confronto tra somiglianza e contrasto. E l’atteggiamento del poeta verso la vita è risolto nel contrasto tra la pienezza di vita della primavera e della gioventú in festa nel borgo e l’estraneità del poeta che, come il passero, non sa parteciparvi per una sua particolare stranezza e singolarità. Si ha cioè in questa poesia un’immagine dell’atteggiamento leopardiano verso la vita che potrebbe anche autorizzare certi giudizi critici del tipo crociano (Leopardi poeta “spettatore”, incapace di vivere), ma che non rappresenta la vera e centrale posizione del Leopardi che in questo periodo corre tra A Silvia e Le ricordanze.
La poesia è articolata in tre strofe, la prima delle quali, partendo da un’immagine (la torre antica) ripresa dalla consuetudine del ricordo e perciò ormai prossima all’impostazione delle Ricordanze, delinea la situazione del passero solitario:
D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sí ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e cosí trapassi
dell’anno e di tua vita il piú bel fiore. (vv. 1-16)
Nell’inizio di questa prima strofa è fortemente rilevata l’immagine della pienezza della natura, della primavera e della vita degli uccelli, gli animali piú nobili, piú ilari e piú vitali, mentre poi si avvertono di piú i limiti della forte presenza di reminiscenze letterarie con cui è costruita questa poesia, con qualcosa di meno assimilato, intimo e contenuto (come nel verso «Odi greggi belar, muggire armenti», che riprende quasi di peso un verso del Caro).
La seconda strofa assimila la situazione del passero solitario rispetto agli altri uccelli, a quella del poeta rispetto agli altri giovani:
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio;
passo del viver mio la primavera.
questo giorno ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventú del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo: e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fere il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventú vien meno. (vv. 17-44)
È la strofa piú complessa di movimenti: all’inizio, l’assimilazione tra la situazione del passero solitario e quella del poeta giovane, che si sente incapace della pienezza di vita degli altri giovani; poi (in contrasto a questa diagnosi di estraneità che Leopardi ha dato di sé in questa poesia), viene prospettato con l’immagine di maggior pienezza il fervore di vita dei giovani del villaggio («Tutta vestita a festa / la gioventú del loco / lascia le case, e per le vie si spande»). È il movimento che culmina nel verso: «E mira ed è mirata, e in cor s’allegra», dove il Leopardi esprime quel bisogno di comunicazione, di possibilità di affetti, e qui di possibilità di amore, che sentiva tra i piú alti motivi della vita, tanto che quando nell’ultima strofa vorrà prospettare il dileguarsi in lui della vitalità, indicherà questo stato come impossibilità di comunicare, dell’ispirare agli altri, di essere ispirato dagli altri («Quando muti questi occhi all’altrui core», v. 53).
Infine, tra i passi piú alti di questa poesia, l’immagine del tramonto costruita secondo il procedimento della doppia vista che ritrova nel dileguarsi luminoso e malinconico del sole il venir meno della giovinezza.
Nell’ultima strofa Leopardi riprende il paragone con il passero, distinguendolo definitivamente da se stesso:
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dí futuro
del dí presente piú noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro. (vv. 45-59)
Come si è accennato, questa dissimilazione ha indubbiamente qualcosa di piú ingegnoso e di troppo sottile, e cosí apparve anche al De Sanctis. Da qui poi parte il motivo piú profondo, che fa pensare anche a una certa vicinanza con Il tramonto della luna, in cui Leopardi si prefigura la vecchiaia raggiunta e sulle soglie di questa una meditazione a ritroso, una specie di ricordo anticipato dentro la situazione della vecchiaia, che trova nel finale, attraverso la lentezza del ritmo, gli incisi, il peso amaro dei verbi («pentirommi», «volgerommi»), quella cadenza malinconica che traduce il significato essenziale di questo canto: l’assenza della pienezza della vita anche nell’epoca fervida della gioventú.
Al di là della prospettiva piuttosto particolare del Passero solitario, con Le ricordanze[13] la poetica della rimembranza riprende la via piú centrale di A Silvia e raggiunge anzi il suo sviluppo piú pieno e sicuro. In questo canto infatti, scritto tra il 26 agosto e il 12 settembre ’29, sono raccolti tutti i piú importanti e profondi motivi della poetica del periodo pisano-recanatese. Oltre al grande tema del ricordo, arricchito anche da sollecitazioni di scritti lontani come il Diario del primo amore dove Leopardi, dietro lo stimolo della Vita alfieriana, parlava appunto del valore del ricordo, capace di ricondurci attraverso gli oggetti presenti al passato, vi convergono la definizione (attuata) di idillio come esprimente «situazioni, affezioni» e soprattutto «avventure storiche del [proprio] animo»; la concezione di poesia come lirica, nel senso cioè di personale espressione interamente autentica di un’esperienza vissuta e sofferta; il valore della fanciullezza come epoca felice cui gli uomini ritornano con profonda nostalgia; e, nella figura di Nerina, i grandi pensieri sui morti o sull’incanto di una fanciulla adolescente; nonché la volontà di narrazione autobiografica risolta nella lirica, quasi a supplire alla mancata attuazione di quel romanzo autobiografico cui piú volte Leopardi aveva pensato dandogli a un certo punto il titolo di Storia di un’anima, e a riprendere quel lungo filone di pensieri tutti raccordati intorno al tema di Memorie della mia vita, nello Zibaldone.
All’andamento narrativo-autobiografico della poesia che traduce questa volontà leopardiana di narrare la propria storia intima, pertengono le riprese, nelle forme del linguaggio e della costruzione sintattica, dal recitativo narrativo e colloquiale del Metastasio e dall’impasto elegiaco-narrativo del Monti dei Pensieri d’amore e degli sciolti A don Sigismondo Chigi. Ma a quell’impostazione narrativa soprattutto corrisponde la scelta metrica, gli endecasillabi sciolti, uno strumento privo cioè di ogni regola esterna con semmai la regola intima e libera del gioco delle assonanze, per adeguare il fluire libero della memoria, che dà a questa poesia un suo andamento particolare, una sorta di spregiudicatezza, caratteristiche che possono far meglio intendere la sua impostazione e le ragioni della sua diversità rispetto ad A Silvia.
Ad alcuni, pensiamo al De Robertis, è sembrato che di fronte ad A Silvia, cosí misurata, essenziale, armonica, in equilibrio perfetto, Le ricordanze siano come viziate da una specie di squilibrio, da un qualcosa di tumultuoso, disordinato ed eccessivo, ma non si è ben considerato che questa misura diversa non costituisce un difetto poetico; essa traduce infatti, rispetto al perfetto diagramma e al rettilineo trapasso dei due poli, positivo e negativo, su cui è costruita A Silvia, il bisogno leopardiano di esprimere ora sino in fondo la storia di se stesso, di assecondare liberamente il fluire della memoria tesa al recupero del passato e al confronto tra passato e presente. Il movimento piú pieno di Le ricordanze, e direi l’alternarsi di movimenti piú concitati e piú pacati (contenuti tutti entro un generale circolo di armonia, di canto e di melodia, che sta al centro della poetica del periodo pisano-recanatese), non sono il semplice prevalere di uno sfogo autobiografico, un’inerte materia psicologica, ma il corrispettivo di questa diversità di impostazione che ricerca una diversa misura cui la stessa scelta strofico-metrica imprime un andamento piú libero e fluido.
Si tratta perciò di un discorso poetico diverso rispetto alla misura simmetrica di A Silvia, ma non meno alto e certamente tra i piú moderni e geniali del Leopardi. Al di là infatti di certi antecedenti settecenteschi come la Vita alfieriana o Les confessions di Rousseau, va sottolineata la ricchezza di spunti che una poesia impostata centralmente sui temi del ricordo e dell’infanzia ha potuto offrire alla poesia moderna, anche per il giuoco tra sensazione, immagine e sentimento; anche se, a evitare letture sbagliate, è evidente che essa non può essere degustata come una poesia delle sensazioni, di tipo dannunziano ad esempio; e ne va saputa cogliere l’estrema spregiudicatezza di linguaggio, che qui va ben al di là dell’impasto medio di vago e di concreto, di pellegrino e di familiare, con l’uso di espressioni come «gente / zotica, vil», e di latinismi anche crudi come «appo le siepi» (vv. 30-31 e 14).
Si avverte cioè in questa poesia una disinvoltura che trova il suo corrispettivo piú intenso nella forza dell’impostazione e nell’organicità del disegno costruttivo, perché è evidente che Le ricordanze, tutt’altro che una serie di impressioni e di ricordi disordinati e caotici, si avvalgono della maggiore ricchezza e complessità con cui qui è svolto il tema del ricordo, chiarito bene nella strofa terza. Dentro alle cose presenti, attraverso il ricordo e la doppia vista, nasce l’immagine del passato e un dolce rimembrare; questa dolcezza del passato respinge al pensiero del presente doloroso, triste e impoetico, per cui sorge in noi un desiderio, anche se vano, del passato, che ci attrae non tanto perché dolce, ma perché ci sottrae al presente; d’altra parte, l’evasione dal presente nel desiderio del passato porta alla verifica che il passato è ormai effettivamente irrecuperabile.
Il diagramma su cui sono costruite Le ricordanze è dunque come piú complesso, piú sinuoso e ricco di quello su cui si muoveva la poesia di A Silvia, e la stessa figura della fanciulla scomparsa, Nerina, non è posta all’inizio della poesia come Silvia ma nasce solo alla fine, dall’attrito lungo della memoria sui ricordi e sul passato, sul paragone fra passato e presente, che dà alla sua rievocazione uno slancio maggiore rispetto alle forme piú composte e quasi dolcemente severe della presentazione di Silvia. Il Leopardi nelle Ricordanze parte dagli oggetti, dalle cose e dai ricordi che le cose comportano, dalla zona della fanciullezza, dell’adolescenza e della gioventú e solo all’ultimo, come a indicare l’ulteriore importanza che tutto ciò acquista, risale in uno slancio terminale dalle cose alle persone e dalla storia piú direttamente personale a una storia di rapporti con gli altri, con le persone scomparse. Tanto che per questa parte terminale si potrebbe riprendere l’espressione che il De Sanctis usò impropriamente per tutte Le ricordanze, definendole un’elegia che si fa inno, perché certo nello slancio finale inno ed elegia si intrecciano e dove piú Leopardi insiste sul tema della caducità, del trascorrere e della morte, si avverte un qualcosa di piú mosso nel movimento di danza in cui Nerina è atteggiata: un movimento che traduce la profonda tensione, la simpatia profonda del Leopardi per una figura umana di cui rappresenta in movimento la bellezza e la vitalità e di cui insieme rimpiange la totale scomparsa dalla terra, dalla vita (senza alcuna possibilità di vita ultraterrena).
D’altra parte il senso profondo degli altri e il recupero delle persone scomparse attuato attraverso il ricordo non è che un triste surrogato della loro effettiva, totale scomparsa. La rimembranza, dapprima dolce, rivela poi il suo effettivo carattere «acerbo», doloroso, perché ci fa sentire come essa non può supplire a ciò che è definitivamente e perentoriamente perduto. Il fondo del ricordo e della sua funzione è doloroso perché il passato è irrecuperabile e da questa definitiva costatazione nasce solo il rimpianto inesausto.
Per intendere dunque a fondo questa poesia, occorre vedere in essa un’impostazione e un impiego del tema del ricordo, cui pertiene coerentemente una particolare scelta di metrica e di linguaggio, diversi rispetto alle forme piú rettilinee su cui era costruita A Silvia: non diminuzione di poesia, ma diversa e pur grande poesia.
Nella prima strofa, la contemplazione di un paesaggio celeste rimanda il poeta alla situazione della fanciullezza, quando egli, guardando le stelle dell’Orsa, cui si rivolge in forma affettuosa e colloquiale, confidente, semplice e insieme elegante, svolgeva fantasticherie quiete, piene di fiducia e di speranza:
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l’aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato. (vv. 1-27)
I versi iniziali, entro i quali Leopardi dipana, con un procedimento che non ha nulla di simmetrico, la matassa della memoria, già dicono le cose fondamentali: il ritorno al passato accenna alla sua inevitabile fine («E delle gioie mie vidi la fine»), ma senza per ora svolgere il tema della speranza come si vede dalle varianti prima tentate («E de la speme poi», «E dove il mio sperar poi venne al fine»)[14], che troppo anticipavano il motivo poi esplicitamente affrontato nella strofa quarta contribuendo meno al clima di dolcezza quasi festosa e fiabesca di questo mirabile inizio. Il ritmo aggiuntivo delle sensazioni che si succedono non è un affollarsi disordinato di immagini, di ricordi, di espansioni e di riflessioni, una specie di procedimento impressionistico, perché tutte queste sensazioni rimandano piú profondamente al fascino sereno di una zona di tranquillità, alla dimensione poetica della beatitudine del fantasticare senza limiti, dell’età dell’infanzia, assicurato persino da un che di protettivo e di domestico.
La contemplazione delle vaghe stelle dell’Orsa riconduce il poeta alla situazione della fanciullezza, nel ricordo, che si riempie del fascino e della dolcezza della consuetudine, assicurata dall’uso dell’imperfetto, il tempo della durata cui poi si aggiunge la sensazione del canto della rana. Essa, in lontananza, fa vibrare il senso di un incanto maggiore, proprio perché (secondo la teoria leopardiana sulla piú intensa vaghezza che ci danno le cose non immediatamente visibili) il luogo da cui proviene è in qualche modo incognito e segreto; sensazione uditiva, cui si aggiunge la sensazione visiva determinata dalla luce vagante della lucciola. Alla fine la profonda notazione sull’interno della casa paterna, con i rumori e l’attività consueta che vi svolgono le persone familiari, sviluppa il senso di tranquillità, di sicurezza e di protezione che costituisce il fascino dell’infanzia.
Ma come questi non sono particolari minuti da assaporare secondo il gusto mimetico e realistico dei critici del secondo Ottocento; perché valgono per la loro capacità di suggerire e ricreare il beato e libero fantasticare dell’infanzia, cosí la notazione successiva sulla vista del mare lontano e dei monti non è solo affascinante nel ricordo per la sua estrinseca bellezza, e per il godimento che il fanciullo poteva provarne, ma riceve il suo valore poetico soprattutto perché in quei monti e in quel mare Leopardi vedeva il limite da varcare per un’avventura vitale che le sue vicende poi e le condizioni pratiche non gli hanno permesso.
Ma questa zona beata che Leopardi ha ricreato sullo spunto delle sensazioni presenti aveva al suo fondo un’incoscienza effettiva e il personaggio poeta non sapeva allora quante volte sulla base della sua esperienza completa avrebbe preferito la morte a questa vita «dolorosa e nuda». Quest’ultima è un’espressione che ad alcuni critici è sembrata troppo scopertamente dolente; ma in realtà, all’interno del movimento generale di questo canto libero e spregiudicato, essa non turba il clima della poesia ma in certo modo lo arricchisce.
Cosí come la strofa successiva non è una brusca inserzione di note polemiche e di temi troppo scopertamente autobiografici, perché esprime, sempre all’interno del tono fondamentale che non manca mai di una sua superiore dolcezza, la volontà leopardiana di dire tutto di se stesso e di passare dal ricordo dolce al paragone con il presente.
Contribuisce perciò al movimento della poesia di cui costituisce anche l’avvio all’espansione finale, a quel rimpianto del tempo giovanile che fugge, che porta alla nota piú struggente di questa strofa:
Né mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perché tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; piú caro
che la fama e l’allor, piú che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore. (vv. 28-49)
Il ricordo della fanciullezza, ignara del fato avverso che avrebbe segnato la vita futura, porta alla raffigurazione piú mossa e quasi violenta della situazione del tempo attuale: la cui genesi, rispetto al Passero solitario, non è cercata nel carattere singolare del poeta che si sente escluso da una vita di rapporti, ma nella ferita profonda che quelle persone tra cui era vissuto gli avevano inferto con il loro disprezzo tanto da farlo diventare aspro e dispregiatore degli uomini, privo di pietà e di virtú. Qualità misantropiche che Leopardi non sente a sé connaturali, ma dovute appunto al «borgo selvaggio» in cui era stato costretto a vivere.
Il movimento di questa strofa è stato considerato di solito eccessivo, oratorio, prosastico tanto da costituire una rottura nel tono fondamentale della poesia. Ma in realtà questi toni, indubbiamente piú vibrati, vengono riassorbiti nella misura propria di questo canto, diversa da quella di A Silvia, piú accogliente, ricca, tanto da potersi avvalere anche di un continuo cambiamento di impostazione sintattica tra cosa evocata, narrata e termine diretto di colloquio: «Qui passo gli anni, abbandonato, occulto», «e intanto vola / il caro tempo giovanil» e poi con una costruzione diversa: «ti perdo / senza un diletto, inutilmente».
Non turbato e incrinato dunque da questo movimento piú pieno e aperto, ma anzi da esso arricchito, segue il tono certamente piú intimo, come piú sognato, della terza strofa. Qui, con il ritorno al motivo centrale del ricordo, ricomincia quasi il percorso sinuoso del diagramma di questa poesia, in cui attraverso gli oggetti presenti preme nella memoria il ricordo del passato:
Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dí; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m’era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l’acerbo indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira. (vv. 50-76)
Il suono della torre civica di Recanati richiama in Leopardi il ricordo del conforto che quel suono dava ai suoi assidui terrori notturni (non solo il ricordo diretto, ma anche nella forma indiretta di reminiscenza di certe pagine dell’adolescenza, come il brano del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in cui egli aveva parlato degli spaventi notturni dei fanciulli). Il movimento del ricordo è accentuato da quel «mi rimembra» che, insieme alle sottolineature delle determinazioni temporali («quando fanciullo», come nella prima strofa «allora / che, tacito, seduto in verde zolla») dà l’avvio all’immergersi nel tempo beato della fanciullezza e nell’onda dei ricordi il cui premere sollecita il poeta, nei modi tipici di questo canto, piú liberi e sinuosi, alla definizione del valore e della funzione per lui del ricordo: dolce per sé, ma che, comportando il confronto con il presente, provoca un vano desiderio e un vano rimpianto di tornare al passato anche se triste e irrevocabile.
Seguitano poi a fluire le memorie infantili sollecitate dalle cose presenti che il poeta richiama quasi con un implicito gestire («Quella loggia», «queste dipinte mura», «quei figurati armenti»), a evocare, come era avvenuto nella prima strofa, il fascino quasi di fiaba della fanciullezza che trova uno dei toni piú alti nel senso di intima letizia e insieme di protezione nella rievocazione fatta con sublime semplicità (il chiarore riflesso delle nevi, il sibilo del vento) della giornata invernale che accentua la sensazione infantile di una sicurezza e intimità provata nel riparo dell’interno della casa.
Poi l’immersione nel passato, rievocato in forme cosí dolci, porta il paragone fra il tempo della mancanza di coscienza dell’effettiva sorte degli uomini («allor che al fianco / m’era, parlando, il mio possente errore») e il tempo in cui il mistero delle cose ci si rivela in tutto il suo carattere acerbo e doloroso.
Ma il ricordo del tempo ancora privo della consapevolezza dell’acerba verità delle cose e ancora pieno di ingenue speranze stimola, con un ulteriore movimento, la rievocazione delle speranze cui il poeta si rivolge con un intenso e affettuoso colloquio:
O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vòti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sí vile
e sí dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell’imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l’esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dí fatal tempererà d’affanno. (vv. 77-103)
È un’altra strofa piena di movimenti, di impeti che però non rompono la misura sostanziale di questa poesia ma la arricchiscono e approfondiscono. Cosí il primo lungo movimento in cui Leopardi, attraverso i due verbi «intendo», «ben veggo», vuole mostrare la sua attuale consapevolezza della vanità delle illusioni e delle speranze, prepara lo slancio successivo, in cui il consueto trapasso tra le speranze rievocate e il presente, di cui il poeta non sa consolarsi, si arricchisce di toni piú aperti, piú espliciti e nostalgici, non tanto affidati alla sollecitazione sulla base del presente verso il passato, quanto allo stimolo fondamentale del mito delle speranze. Nell’ultima parte invece Leopardi proietta la dimensione del ricordo anche verso il futuro: quando egli sarà vicino alla morte che concluderà la sua triste vicenda vitale, allora il ricordo («risovverrammi») svelerà la propria funzione che è quella di presentare un passato non attuato, le speranze non maturate, e porterà il suo carattere acerbo e doloroso a temperare la dolcezza della morte. La quinta strofa si consolida attraverso la sollecitazione del motivo della morte invocata:
E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d’angosce e di desio,
morte chiamai piú volte, e lungamente
mi sedetti colà sulla fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de’ miei poveri dí, che sí per tempo
cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co’ silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto. (vv. 104-118)
Qui il Leopardi rievoca (riprendendo molto da vicino i modi con cui nella Cantica Appressamento della morte, della fine del 1816, aveva cercato di esprimere la sua situazione di giovane che aspira alla vita e sente tuttavia o immagina prossima la morte) quel momento della sua vita come particolarmente sollecitante nella sua poesia, per l’incontro tra desiderio e aspirazione alla vita e sentimento precoce della morte. Tanto che non si può non ricordare una pagina del De Sanctis sulle Ricordanze in cui, a parte la forzatura dell’interpretazione totale della poesia, che è tutta portata a un senso di esaltazione luminosa e gioiosa, è ben colto il forte fascino e la forte aspirazione alla vita che anche in questa strofa Leopardi sente pur nella situazione dell’avvicinarsi della morte[15].
La strofa successiva torna, rievocandolo, sull’affascinante e incantevole momento della vita sua e della vita dell’uomo in cui si attua il passaggio tra adolescenza e primo entrare nella giovinezza, quando le speranze sembrano realizzarsi e pare che anche gli altri uomini guardino sotto una particolare luce di simpatia al giovane che si affaccia alla vita:
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? (vv. 119-135)
L’ingresso della gioventú, per la sua situazione particolarissima, è visto in questa luce di simpatia cosí diversa rispetto al rapporto piú consueto tra gli uomini, costituito dall’invidia e dalla mancanza di simpatia per gli altri, ma è insieme siglato nella sua fugacità, nella sua bellezza singolare e irripetibile. Ed è proprio su questi temi (da un lato il fascino della prima gioventú e dall’altro il motivo elegiaco dello spengersi, della fugacità e della caducità) che Leopardi imposta la figura di Nerina in cui la poesia trova il suo piú alto culmine. Rispetto ad A Silvia, in cui la fanciulla era subito evocata, il procedimento è capovolto, perché Nerina appare solo alla fine come dal lungo attrito della memoria, dalla lunga rievocazione del passato che porta al confronto con il presente, quasi che Leopardi solo alla fine giungesse al tema piú importante, al rimpianto e al recupero della memoria della persona scomparsa per sempre.
Il personaggio di Nerina è intriso di ricordi che possono essere del tutto scambiati con quelli di Silvia: ambedue sono nomi ripresi dall’Aminta del Tasso, dalla stessa opera e dallo stesso clima; sia Nerina che Silvia sono il simbolo della gioventú, e lo stesso Carlo Leopardi, suggerendo tanto piú tardi di identificare Nerina con Maria Belardinelli e Silvia con Teresa Fattorini, capiva che quelle fanciulle reali[16] si erano come fuse in un’unica figura poetica. Ma rispetto alla severità che contorna la figura di Silvia, Nerina viene prospettata con un carattere piú intenso di elegia e insieme di inno che sfocia in un movimento di danza suggerito non solo dalla precisa indicazione «Ivi danzando» (v. 153), ma proprio dall’andamento della strofa costruita su slanci e su repliche e, come già si è detto, dalla interna tensione a rievocare la figura scomparsa nella sua massima vitalità e quindi in un movimento di danza:
O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Piú non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che piú non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventú, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l’antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a feste
tu non ti acconci piú, tu piú non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
van gli amanti recando alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or piú non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba. (vv. 136-173)
L’invocazione a Nerina, il colloquio piú aperto con la persona, in cui si consolida tutto il senso luminoso e struggente di questa poesia, è fatta in forme quasi da linguaggio melodrammatico («dolcezza mia», «In cor mi regna / l’antico amor») che però giovano a Leopardi per accentuare il movimento affettuoso che permette una possibilità di colloquio al di là della cesura della morte. Cosí come gli interrogativi con cui il poeta esprime questa specie di dolente stupore nel non ritrovare nelle cose tutte ancora presenti ciò che piú importa, la persona scomparsa, sollecitano a caricare la poesia di quelle espressioni estremamente struggenti del “mai piú”, della privazione («Piú non ti vede / questa Terra natal») su cui nello Zibaldone tante volte Leopardi aveva insistito. La scomparsa della fanciulla, di cui il Leopardi domanda ansiosamente le ragioni, è poi consolidata attraverso il tentativo di ricreare rapidamente la lontana consuetudine del colloquio attualmente del tutto interrotto (si noti l’insistenza su forme come «usata», «soleva», a indicare la continuità nel passato), cui la collocazione in rilievo dell’espressione «È deserta» nell’immagine della finestra e l’incentivo di «notturno», implicito nel rilucere del raggio delle stelle, danno un’accentuazione di toni elegiaci.
Le frasi che seguono, con la loro brevità e scioltezza, e insieme con l’uso cosí significativo, come in A Silvia, del passato remoto, vogliono sottolineare il passaggio all’incontro struggente e affascinante della rievocazione della persona morta in tutta la sua radiosa bellezza con la sua totale caducità, il suo “passare”. Che è anche il verbo della sorte degli uomini, come è detto nei bellissimi versi seguenti in cui Leopardi esprime la sua profonda passione per il caduco, la sua simpatia per gli uomini, piú forte quando sappiamo che non li incontreremo piú. Cosí come il fascino della vita che riaffiora nel verso «E l’abitar questi odorati colli» (e che sarà poi risentito nelle sue impressioni essenziali, «L’aria», «i campi») è tanto piú forte perché sappiamo che non durerà, perché mai si sente cosí vivo il fascino della vita, nelle sue immagini essenziali ed effimere («L’aria», «i campi», gli «odorati colli»), come quando la si guarda dai margini della morte e quando si sa (come il Leopardi sapeva) che non c’è nulla al di là della morte. Perché se credessimo (direbbe ancora il Leopardi) che vi sono altri luoghi di incontro, per gli uomini, minore sarebbe il fascino struggente di questi unici luoghi in cui passiamo e ci incontriamo.
La ripresa successiva vuol certo sottolineare la sorte di Nerina morta nella prima gioventú, il suo breve passare nella vita, ma soprattutto imprime al resto della poesia un ritmo piú celere e slanciato da cui scaturisce la presentazione della figura scomparsa nel momento piú luminoso della sua vitalità, in quel movimento di danza accentuato nella sua espansione anche dall’uso del chiasmo che avvicina al centro del verso il verbo fondamentale: «in fronte / la gioia ti splendea, splendea negli occhi». Cosí come le successive replicazioni simmetriche del «Se» e del «Dico», sottolineano lo slancio maggiore della parte finale il cui tempo musicale si serra poi quando Leopardi usa quel «Dico» che prima apriva periodi piú lunghi, per frasi piú brevi che preparano le parole fondamentali per Nerina, prospettata nel fascino della vita e nella privazione di quella nella morte. Tra le ripetizioni del verbo fondamentale («passasti») si inserisce poi l’appellativo alla fanciulla («eterno sospiro mio»): proprio perché il soggetto è caduco e morto e mancano d’altra parte speranze di sopravvivenza, il rimpianto è eterno e inesausto in quanto non trova nessun altro compenso se non in se stesso. Il suono direttamente elegiaco delle ultime parole sottolinea anche la terminale funzione del ricordo che viene portata in Le ricordanze alle sue estreme conseguenze. Al di là del suo impiego nella rievocazione della dolcezza del tempo passato, esso rivela al suo fondo il carattere effettivo di amarezza e di acerbità. La persona è totalmente scomparsa, e i vivi possono soltanto intrecciarne il ricordo amaro ai loro sentimenti piú profondi: non altro che questo.
Dopo Le ricordanze, completate il 12 settembre, Leopardi scrisse, tra il 17 e il 20 settembre, La quiete dopo la tempesta e, tra il 20 e il 29, Il sabato del villaggio. Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, cominciato posteriormente, il 22 ottobre del ’29, fu completato, evidentemente con un lavoro molto complesso, solo sei mesi dopo, il 9 aprile del ’30. Questo ordine di composizione fu poi dal Leopardi spostato nell’edizione dei Canti, dove il Canto notturno precede la Quiete e il Sabato come se il poeta avesse voluto mettere in una linea continua la serie piú profonda e centrale di queste poesie (A Silvia, Le ricordanze e il Canto notturno) e, al di là di questa zona piú intensa, il dittico della Quiete e del Sabato, che nascono come da una pressione sostanzialmente meno profonda, prima della ripresa dei grossi e impegnativi temi che riaffioreranno nel Canto notturno.
La Quiete e il Sabato[17], pur non costruiti direttamente sul motivo del ricordo, hanno senza dubbio raccordi con questo procedimento. Le scene paesane e le figure popolari che Leopardi rappresenta sono nutrite della consuetudine del ricordo: sono figure e paesaggi cari, arricchiti attraverso l’assiduo ritorno alla mente del poeta. Cosí come una di queste figure, la vecchierella del Sabato, è atteggiata decisamente nei modi del ricordo e ripropone, pur in maniera rapida e alleggerita, il diagramma tra passato e presente, tra ricordo della giovinezza e l’attuale vecchiaia. Né, d’altra parte, manca il raccordo con le poesie precedenti per l’impostazione lirica come fatto personale, nel senso di vita e di esperienza vissuta. Seppure infatti qui il poeta non parla di se stesso, tuttavia è la sua voce che evoca, trae la riflessione; i luoghi e le figure rappresentate sono materia viva del suo ricordo, della sua consuetudine ed esperienza.
Se dunque gli elementi di continuità non mancano, è tuttavia evidente che un certo spostamento c’è stato. Leopardi ha abbandonato il tema diretto del ricordo per verificare certe sue raggiunte verità (il piacere che esiste solo in momenti effimeri) entro una situazione presente in figure comuni, la donzelletta, la vecchierella, il legnaiuolo del Sabato, l’artigiano e la femminetta della Quiete, ma prive della consapevolezza del filosofo. Che sarà invece il carattere del pastore del Canto notturno che pur vicino, nella sua schiettezza di voce di un’umanità semplice e non educata filosoficamente, a queste figure, se vogliamo piú gracili e meno complesse, e non perciò semplicemente letterarie e arcadiche, se ne distacca perché non bisognoso di un’aggiunta di consapevolezza da parte del poeta. Il filosofo sa quanto il pastore, e potremmo dire, capovolgendo la frase, il pastore sa ed esprime le stesse amare verità cui perviene il filosofo.
Il tema comune di queste due poesie è il carattere insopprimibile e insieme effimero del piacere e della felicità su cui Leopardi era tornato in un pensiero del maggio del ’29: «La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han piú di noi, se non il patir meno; cosí i selvaggi: ma la felicità nessuno» [4517][18]. Il tono di questo pensiero è ripreso nei due canti in forme meno perentorie e piú graduate. Da un lato, nella Quiete, la possibilità del piacere è vista come cessazione del dolore e del timore, dall’altro, nel Sabato, come attesa di una felicità sperata ma non reale. Sicché la consistenza della felicità non ha un carattere positivo ma nasce solo per contrasto a ciò che veramente è presente nell’uomo, il dolore, il timore e la pena.
Ma come nel grande finale delle Ricordanze (e anche questo è un elemento di continuità e di raccordo tra i canti di questo periodo) Leopardi proprio mentre mostrava la caducità, il destino per la morte di Nerina tanto piú sentiva tutto il fascino della vita e della bellezza, cosí qui, seppur in forme tanto meno appassionate, quanto piú afferma amare verità filosofiche (l’effettiva miseria e nullità dell’uomo, il carattere effimero e alla fine inconsistente dei momenti brevi di felicità) tanto piú ne sente l’estrema attrazione. Ed è appunto questa dialettica idillico-elegiaca che costituisce la ragione e la bellezza di questi due canti.
I quali, d’altra parte, hanno una genesi e una costruzione unitaria che pone in stretta correlazione le scene iniziali con quelle finali. I quadri con cui essi si aprono non possono infatti essere letti (come volle il Croce e con lui alcuni suoi scolari, come il Citanna, piú legati al gusto di una poesia tutta sensibile e tutta immagine)[19] come scenette idilliche staccate dal resto e fruibili a sé, come pittura senza motivazioni interne e senza «passione» (che è un tipo di poesia e arte, come risulta da precisi accenni dello Zibaldone, non accettato da Leopardi)[20], perché essi alimentano segretamente l’interpretazione finale che ne scaturisce e che perciò non può che astrattamente esser considerata riflessiva.
A questo tipo di interpretazione si oppose del resto già il De Robertis mostrando che i finali sono parte integrante delle poesie e perciò poeticamente vivi (ma, a mio avviso, con un eccesso di entusiasmo nel giudizio d’insieme che non può essere condiviso)[21]. Queste poesie, infatti, per quanto unitarie e certamente perfette, sembrano però attuare questa loro perfezione e suprema misura su una tensione meno profonda di quella su cui nascono i grandi capolavori di questo stesso periodo (A Silvia, Le ricordanze, il Canto notturno). Come si può vedere confrontando la struttura compositiva che, dalla Quiete al Sabato, procede verso un maggiore equilibrio tra quadro e parte di interpretazione; cosí come la stessa voce leopardiana, mentre nel finale della Quiete, pur nella sostanziale misura, ha un’espansione e vibrazione contenuta ma intensa, nel finale del Sabato si è ulteriormente misurata, composta e come volontariamente smorzata. Si assiste cioè ad un processo di estrema misura, a un gusto progressivo di smorzamento, di volontà di evitare ogni espansione e ogni impeto piú deciso che può denotare come un certo limite di queste due poesie rispetto ad altre tanto piú ricche di grossi motivi e tanto piú intense.
La prima strofa della Quiete descrive il momento di ripresa di vitalità che succede alla tempesta:
Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
dalla novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia. (vv. 1-24)
Leopardi non ha voluto rappresentare direttamente la tempesta, di cui semmai un accenno ritornerà nella seconda strofa, ma questa ripresa di vita, còlta nel suo momento germinale piú spontaneo, piú lieto e festoso, in cui è cessato il timore provocato dalla tempesta. La rappresentazione ha un accento estremamente pacato, dalla cadenza calma, assecondata anche da quella rima al centro («tempesta» «festa») che imprime una lieve inflessione di iniziale letizia e poi progredisce, attraverso l’immagine delle figure particolari, fino all’espansione della raffigurazione del cielo. L’efficacia e la funzione dei singoli particolari va cioè sentita non per la loro capacità mimetica, fotografica e veristica, su cui molto insistettero i commentatori del tardo Ottocento, e da cui invece il gusto leopardiano è lontanissimo, ma per quello che il poeta vuol ricavarne, il senso di letizia crescente che si accentua passando dai primi rumori di gioia ai toni vasti dei versi seguenti dove la scena si amplia nell’aprirsi del cielo verso la montagna, nell’apparire della campagna libera dal velo di pioggia che l’offuscava, nel profilarsi distinto del fiume. (E si noti per quest’ultimo verso, «E chiaro nella valle il fiume appare», la capacità leopardiana di realizzare un linguaggio dai modi semplici ed eletti, veri e vaghi. Nella prima stesura infatti si trova «e chiaro nella valle il fiume splende», dove quello «splende», rispetto ad «appare», aveva un qualcosa di troppo forte e meno vicino alle forme sobrie ed essenziali proprie della poetica di questo periodo)[22].
Questo sentimento poetico di ripresa di vitalità non è prodotto solo dalle particolari immagini, ma anche dall’insistenza su forme come «ogni», con cui Leopardi accentua il carattere corale di gioia piena che investe tutti i luoghi e tutti gli uomini. Che non è cioè un sentimento eccezionale, come si vede dai versi sull’artigiano che in qualche modo replicano (seppure con prospettiva e intonazione diverse) la situazione che Leopardi aveva attribuito in A Silvia a se stesso. L’artigiano, l’uomo umile e semplice e il grande poeta provano insieme certi affetti fondamentali, quel breve piacere improvviso di espansione e di letizia (tradotto anche attraverso l’immagine visiva del grido dell’erbaiuolo che si espande di sentiero in sentiero, con un forte senso musicale cosí tipico di questa poesia) che succede alla tempesta, alla cessazione del dolore, da cui tanto piú sono spinti a cantare e a mirare il cielo.
Il moto alacre di letizia procede dalle figure al paesaggio e ritorna poi dalla natura alle persone, ed è siglato dalla replicazione del movimento dell’aprire la casa (chiusa nel momento della tempesta e in cui gli uomini hanno voluto come rinserrarsi a difesa della loro vita), che accentua il riespandersi della vita.
Per l’immagine dei versi finali («e, dalla via corrente, odi lontano / tintinnio di sonagli; il carro stride / del passeggier che il suo cammin ripiglia»), il cui carattere suggestivo e poetico è accresciuto in quanto il suono lontano dei sonagli comporta, secondo il criterio della doppia vista, un movimento lontanante, senza qualcosa di troppo immediato e vicino, nella memoria poetica leopardiana è certamente riaffiorata una descrizione simile segnata in versi giovanili, circa del ’17: «Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro / del passegger, che stritolando i sassi / mandava un suon, cui precedea da lungi / il tintinnío de’ mobili sonagli» [1][23]. Ma nei versi piú maturi della Quiete questa ricerca iniziale piú mimetica e piú rappresentativa di precisi movimenti della realtà (il «tintinnío de’ mobili sonagli», in cui si avverte tra l’altro un’eco assai vicina a quelle di certe espressioni dell’inizio del Mattino pariniano) è stata portata a un tono piú suggestivo, «vero» e «vago».
La strofa successiva non sopraggiunge imprevista a disturbare la voce del poeta filosofo, ma, secondo il procedimento della doppia vista poetica, sviluppa quell’interpretazione di cui il quadro idillico era allusivo e simbolico; e si esprime perciò coerentemente, senza incrinature, con lo stesso tono pacato con cui Leopardi aveva evocato le figure e il paesaggio della prima strofa:
Si rallegra ogni core.
sí dolce, sí gradita
quand’è, com’or, la vita?
quando con tanto amore
l’uomo a’ suoi studi intende?
o torna all’opre? o cosa nova imprende?
quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
gioia vana, ch’è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento. (vv. 25-41)
Dopo aver impostato la sua interpretazione della ripresa di vita succeduta alla tempesta, che qui ha un’ulteriore rappresentazione indiretta ma con un accento piú rapido, Leopardi viene a verificare come il piacere consista solamente nel dolore:
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana. (vv. 42-54)
In quest’ultima strofa Leopardi ha arricchito la sua voce di un tono d’ironia (raggiunto con una variante del ’35 sull’iniziale stesura: «Umana / prole degna di pianto!»), ma assai misurato e pacato, conforme all’equilibrata e controllata misura di questa poesia. Molto diverso dai toni vibrati di protesta del Leopardi piú eroico o dal sarcasmo delle ultime poesie come La ginestra, e anche lontane dagli accenti piú appassionati e intensi che, pur nella fondamentale armonia, caratterizzavano l’ultima strofa di A Silvia. E negli stessi limiti di estrema misura si mantiene anche il movimento finale («assai felice / se respirar ti lice / d’alcun dolor: beata»), piú lieve rispetto all’espansione maggiore che simili motivi avevano ad esempio nel finale di A un vincitore del pallone («Nostra vita a che val?»).
Il sabato del villaggio, legato strettamente in una specie di dittico alla poesia precedente, sviluppa l’altro corollario della dottrina leopardiana del piacere: mentre nella Quiete il piacere consisteva nel momento effimero della cessazione del dolore, in questo canto è visto consistere nell’altro momento effimero della sua attesa. Sicché, a voler stringere la conclusione leopardiana, il piacere non ha un’effettiva realtà, ha semmai una breve apparenza illusoria e ingannevole e insieme un fascino breve da cui nasce quell’incontro luminoso e mesto che hanno queste poesie.
Questo canto porta piú avanti la direzione di misura, di equilibrio, di dolcezza, di pacatezza, di melodia in cui ogni movimento troppo aspro è come smorzato. Una direzione che va compresa soprattutto per non scambiare questi canti per semplici bozzetti, come a volte è potuto avvenire quando si è tentato di tagliare bruscamente la parte del cosiddetto quadro, dalla parte della cosiddetta riflessione, in realtà la genesi di queste due poesie è unitaria, la parte contenutisticamente riflessiva e la parte del “quadretto” sono nate insieme e non avrebbero ragione di esistere l’una senza l’altra, perché il finale non è un’aggiunta sentenziosa e riflessiva, ma un’interpretazione, pur sempre poetica, che scaturisce dal quadro stesso. Questa direzione di estrema misura va anche valutata per intendere quello che queste poesie hanno di estremamente elegante, di perfetto, di greco (come spesso si è detto), per comprendere come questa misura sviluppi la poetica dei grandi idilli, ma anche per rifiutare la tesi derobertisiana secondo la quale questi canti sarebbero la cima della poesia del Leopardi e in qualche modo il paradigma su cui andrebbe misurata l’intera sua poesia. In realtà, pur nella loro perfezione, queste due poesie hanno una minore forza propulsiva, una minore pressione interna rispetto alle altre maggiori poesie di questo periodo.
Questo gusto di estrema misura si accentua, rispetto alla Quiete, nella stessa piú equilibrata e armonica proporzione con cui è costruito Il sabato del villaggio. A una prima strofa piú lunga, che delinea la situazione del quadro, e a una seconda che ancora presenta figure di un’umanità schietta e istintiva, seguono altre due strofe in cui Leopardi ricava la sua interpretazione di quel quadro iniziale, la fugacità del piacere e il suo carattere effimero, la sua riduzione alla semplice attesa di una festa che non verrà. Cosí come, mentre nel finale della Quiete si avvertiva, pur nei modi estremamente contenuti, una qualche maggiore inflessione tensiva, specialmente negli ultimi tre versi, nell’ammonimento finale del Sabato al garzoncello scherzoso Leopardi ha cercato di contenere al massimo ogni movimento troppo aperto per dare alla sua voce un tono estremamente pacato, piú smorzato e alleggerito anche rispetto agli stessi esiti raggiunti nella Quiete dopo la tempesta.
Le figure della scena domestica e concreta che delinea la situazione del villaggio nell’attesa della festa, la sera del sabato, ad alcuni critici sono apparse avere come un qualcosa di troppo arcadico, quasi di lezioso. In realtà le figure che qui appaiono, e la stessa scena concreta e vaga, sorgono dalla lunga consuetudine del ricordo (che tra l’altro sollecita anche certe riprese da situazioni poetiche già espresse in poesie lontane e pure assai diverse nel loro complesso come La sera del dí di festa); e gli stessi vezzeggiativi che possono sembrare piú letterari solo se misurati astrattamente e non valutati alla luce del motivo poetico del ricordo, sono una forma di vagheggiamento tenero ed elegante di care immagini del cuore, intrise di simpatia benevola e affettuosa:
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’età piú bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo. (vv. 1-30)
Queste figure non sono accumulate a macchia secondo un gusto impressionistico, ma sono disposte su un ritmo e un movimento che, all’inizio piú alacre e gioioso, trova poi una conclusione limpida e malinconica. L’immagine della donzelletta non ha nulla di impressionistico e di bozzettistico, essa è il risultato di una lunga meditazione poetica, di un accarezzamento del cuore e della fantasia; come indica del resto chiaramente quel verbo tematico (“solere”), che tante volte ritorna nelle poesie di questo periodo a sottolineare un senso del passato e del presente reso affascinante dalla consuetudine, e in questo caso a indicare non un gesto presente, brusco e immediato, ma un modo di essere costante. In tal modo si può anche vincere facilmente quell’impressione di stucchevole dolcezza che proviene da un certo abuso scolastico proprio di un gusto veristico, mimetico, lontanissimo dalla poesia e dalla poetica leopardiana, mai volta a cogliere un’impressione nella sua immediatezza e a renderla cosí com’è. Cosí come nell’immagine delle rose e delle viole non dovremo certo rilevare la mancanza di verità obbiettiva[24], ma l’incanto che Leopardi ritrovava nell’incontro di parole insieme vero e vago, sollecitato anche dall’uso non infrequente di questo accostamento nella nostra tradizione letteraria.
La presentazione della vecchierella, posta sullo sfondo di uno spazio che si amplia suggestivamente e malinconicamente nell’ora del tramonto, è atteggiata nei modi del ricordo, nel suo ricordare: il piacere del dí della festa in lei non è tanto diretto quanto visto suggestivamente attraverso i ricordi di quello che per lei era il sabato nella sua gioventú, quando anch’ella si preparava alla festa.
Poi, dalle figure al paesaggio, delineato in forme sobrie ed essenziali senza nulla di insistito e di pittoresco, e da questo sfondo di nuovo alle persone. Ma anche in questi settenari in cui piú si avverte (anche per l’incentivo di piú chiara letizia e fervore dato dal moto uditivo del suono della campana che indica il sopravvenire del giorno sacro) un’impressione di attesa e di fervore per una gioia che non verrà, il gusto leopardiano tipico di queste poesie frena tutto quello che vi potrebbe essere di troppo apertamente impulsivo e gioioso per un tono smorzato e affabile, quasi di parlato («ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta»). A questa segue la scena («I fanciulli gridando»), in cui si riflette, in una condizione ancor piú inconsapevole che negli altri personaggi, questo istintivo moto di letizia per l’attesa della festa che verrà, e infine l’ultima immagine in cui la strofa è portata a un allargamento melodico e lievemente malinconico:
poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba. (vv. 31-37)
In questa seconda strofa Leopardi non ha voluto tanto replicare la situazione precedente ma portarla avanti estremizzandola. Nel legnaiuolo che per avere quel giorno di piena vacanza, di piena gioia lavora affrettatamente fino all’alba, sconfinando dal sabato dentro gli inizi della domenica, Leopardi ha voluto quasi far cogliere il momento brevissimo della festa di cui il legnaiuolo quasi brucia i margini, illudendosi di poter essere cosí pienamente libero dal lavoro e tutto dedito al piacere del giorno di festa e riposo. Ma questo desiderio di riposo rileva, nell’interpretazione che il poeta ne dà subito dopo, il suo carattere controproducente, perché è proprio quando gli uomini sono privi di occupazione che avvertono un moto di noia, di tedio, il sentimento ossessivo che li prende quando mancano di un qualcosa che li distragga:
Questo di sette è il piú gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno. (vv. 38-42)
Questa interpretazione non è giustapposta al quadro precedente (che introduce tra l’altro il consueto giuoco di interni e di esterni con i suoi effetti di luce e di rumore che vengono dal chiuso della bottega rispetto alla scena aperta del paese prima al tramonto e poi nel buio della notte), ma lo prepara: il legnaiuolo che si affretta a lavorare, per avere un giorno interamente libero, rappresenta anticipatamente il sentimento di delusione della domenica che, proprio perché giorno interamente libero, diventa il giorno della noia. Dopo il sabato, il giorno piú gradito per il suo carattere di attesa, con la domenica, gli uomini, per la loro mancanza di occupazione, sono riportati a pensare al giorno della festa con un misto di piacere e di dispiacere: di dispiacere per il lavoro che li attende, in quanto faticoso, ma insieme di inconsapevole piacere per una vita piú occupata e perciò meno noiosa e attediata.
Nell’ultima strofa Leopardi si rivolge, con un misto di benevolenza e di lieve ironia, a un personaggio di questa piccola scena, il «Garzoncello scherzoso». Questa componente di bonaria ironia, che compariva anche nella Quiete dopo la tempesta, è un mezzo rivelatore non solo del carattere illusorio che Leopardi vuol attribuire alla festa, ma pure un modo che egli adopera per contenere e misurare all’estremo ogni impeto:
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave. (vv. 43-51)
La fanciullezza è come il sabato della vita, il giorno che precorre a una festa che non verrà mai: l’unica “festa” è appunto la semplice attesa.
In quest’ultima strofa Leopardi ha portato fino in fondo la sua ricerca, coerente alla direzione che persegue in queste poesie, di un tono estremamente pacato che può giungere ai limiti quasi di un alleggerimento eccessivo, lontano dai toni piú intensi di altri grandi canti.
1 Tutte le opere, I, p. 1347.
2 Cfr. Tutte le opere, I, p. 1339.
3 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 372-373.
4 Tutte le opere, I, p. 350.
5 Tutte le opere, I, pp. 16-17.
6 Il passo è: «Galline che tornano spontaneamente la sera alla loro stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che scendendo per essa si perdono tosto di vista, altra immagine dell’infinito». Tutte le opere, I, p. 336.
7 Cfr. A Monteverdi, «La data del Passero solitario», in Frammenti critici leopardiani, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967 (1a ed., fuori commercio, Roma, Tipografia del Senato, 1959), pp. 67-87, con una Poscritta (1965), pp. 88-101.
8 Cfr. U. Bosco, «Sulla datazione di alcuni Canti leopardiani», in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano-Verona, Mondadori, 1963, pp. 618-625, ora in Id., Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci, 1980, pp. 57-64.
9 Cfr. G. Getto, «D’in su la vetta della torre antica», in Saggi leopardiani cit., pp. 223-238 (già edito in «Lettere Italiane», n. 2, 1964, pp. 154-63), e P. Reffienna, «Sur la date du Passero solitario», «Revue des études italiennes», n. 4, 1960, pp. 350-359.
10 Tutte le opere, II, p. 1197.
11 Cfr. G. Getto, «D’in su la vetta della torre antica» cit.
12 Cfr. M. Corti, Passero solitario in Arcadia, «Paragone», n. 14 (nuova serie), 1966, pp. 14-25, poi, leggermente ampliato, in Id., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969 (19772), pp. 193-207.
13 Tutte le opere, I, pp. 27-28.
14 Per le varianti de Le ricordanze cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 538-548.
15 «Qui ci è una copia e una ricchezza di forme per entro a cui s’insinuano gli accenti piú appassionati. Mai forse il poeta si era espresso con tanta espansione e con colori cosí pieni di luce, sicché la poesia rassomiglia piú ad un inno che ad una elegia. La stessa Nerina sembra che danzi e si rida in questa evocazione del passato, avvolta e trasfigurata in mezzo ad immagini luminose e gioiose». Giacomo Leopardi cit., p. 336.
16 Anche se si dimostrava cosí diverso dal grande fratello chiamandole: «quelle due povere diavole»! (Cfr. il n. 23 dei Ricordi, giudizi, ragguagli intorno la fanciullezza, la vita, le opere di Giacomo Leopardi scritti o dati da Carlo e Paolina suoi fratelli, o raccolti altronde, in Epistolario di Giacomo Leopardi, raccolto e ordinato da P. Viani, vol. III: Lettere degli amici a lui, raccolte da P. Viani, con l’aggiunta di tutte le lettere di Pietro Brighenti, a cura di G. Piergili, Firenze, Le Monnier, 19398, p. 482).
17 Si leggono in Tutte le opere, I, pp. 30-31.
18 Tutte le opere, II, p. 1236.
19 Cfr. B. Croce, «Leopardi» cit., e G. Citanna, «Giacomo Leopardi», in Il Romanticismo e la poesia italiana. Dal Parini al Carducci, Bari, Laterza, 1935, 2a ed. riveduta e accresciuta Bari, Laterza, 1949, pp. 170-220 (già pubblicato ne La Critica, XXV, 1927, pp. 85-100, 158-167, 225-237).
20 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 611-612.
21 Cfr. G. De Robertis, Saggio sul Leopardi cit., p. 112: «Quanto alla Quiete dopo la tempesta e al Sabato del villaggio, non sono molti ormai che non vi riconoscano la cima della poesia leopardiana; ma qualcuno ancora fa le difficoltà per “approvare” le parti riflessive ultime, il commento e il congedo».
22 Le varianti de La quiete dopo la tempesta si leggono in G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 568-570.
23 Tutte le opere, II, p. 3.
24 Come apparve al Pascoli che, guidato dal suo gusto dei particolari precisi, assai lontano da quello del Leopardi, osservò che le rose e le viole non fioriscono nella stessa stagione (cfr. G. Pascoli, «Il sabato» (1896), in Prose, con una premessa di A. Vicinelli, 2 voll., Milano, Mondadori, 1946, I, pp. 58-85).